2023

16 novembre Paioni et al., Soppressione della viremia e aderenza al trattamento durante il periodo post parto nelle donne che vivono con l’HIV


Soppressione della viremia e aderenza al trattamento durante il periodo post parto nelle donne che vivono con l’HIV.  The Lancet Regional Health – Europe

Dal 2018 le donne che vivono con l’HIV hanno una viremia non misurabile nel plasma e in Svizzera possono allattare se lo desiderano. In tal caso i controlli nel periodo post parto sono di importanza fondamentale. Malgrado ciò, vari studi hanno dimostrato che indipendentemente da una viremia soppressa al momento del parto, la viremia nel periodo successivo è spesso detettabile a causa di un’aderenza insufficiente alla terapia antiretrovirale (ART).

Nell’ambito dello Studio svizzero della Coorte HIV (SHCS) abbiamo esaminato le donne che vivono con l’HIV e che hanno partorito nel periodo tra gennaio 2000 e dicembre 2018, verificando il livello di viremia. Abbiamo verificato se i controlli di madre e bambino sono stati fatti in modo corretto nei 12 mesi successivi alla nascita e se la viremia nella madre è rimasta soppressa durante quel periodo.

Il 94% (694/737) delle donne che hanno partorito hanno continuato a beneficiare di controlli clinici nei sei mesi dopo la fine della gravidanza. Un inizio ritardato della ART durante il terzo trimestre di gravidanza è risultato essere il principale fattore di rischio di un’interruzione dei controlli post parto. Tra le mamme che hanno assunto una ART fino almeno ad almeno un anno dopo il parto, 4.4% (26/591) hanno presentato una viremia detettabile. Il fattore di rischio principale era il consumo di sostanze stupefacenti. Il principale fattore di rischio per controlli insufficienti del neonato, sulla base delle raccomandazioni vigenti, era una depressione della madre.

Il tasso elevato di controlli fatti correttamente nella madre e nel neonato dopo il parto è rassicurante, ma sussistono dei fattori di rischio modificabili che sono associati alla mancanza di controlli adeguati. Questi fattori, ossia l’inizio ritardato del trattamento antiretrovirale in gravidanza e la depressione della madre, dovrebbero essere presi in considerazione durante la presa in carico di donne in gravidanza che vivono con l’HIV, soprattutto se scelgono di allattare in modo naturale.

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18 ottobre Tepekule et al., Impatto della tubercolosi latente sul diabete mellito


Impatto della tubercolosi latente sul diabete mellito.  Journal of Infectious Diseases

Nella maggioranza dei casi le infezioni da micobatteri della tubercolosi sono latenti, ciò significa che sono controllate dal sistema immunitario e che non causano un’infezione manifesta.

Ricerche precedenti condotte nell’ambito dello Studio Svizzero della Cohorte HIV (SHCS) hanno mostrato che le persone con tubercolosi latente sviluppano meno frequentemente infezioni opportunistiche associate all’HIV e controllano meglio la replicazione dell’HIV nel sangue. Ciò potrebbe derivare dal fatto che la tubercolosi latente aumenta l’attivazione del sistema immunitario e ciò potrebbe essere utile per combattere altre infezioni.

Per contro, l’aumento dell’attivazione del sistema immunitario potrebbe condurre a un rischio aumentato di malattie non trasmissibili e infiammatorie. Lo studio attuale ha verificato questa ipotesi esaminando la potenziale relazione tra tubercolosi latente e diabete mellito nei pazienti che partecipano alla SHCS.

Il numero di nuove diagnosi di diabete è risultato circa il 50% più elevato nelle partecipanti e nei partecipanti della SHCS che presentano una tubercolosi latente nel confronto con i partecipanti senza tubercolosi latente. Questo effetto era statisticamente molto significativo, anche tenendo conto di possibili fattori confondenti come il sovrappeso. Ciò suggerisce che la tubercolosi latente potrebbe aumentare il rischio di sviluppare un diabete.

Altri studi sono ora necessari per esaminare un eventuale legame tra tubercolosi latente e lo sviluppo di malattie infiammatorie.

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20 settembre Neesgaard et al., Inibitori dell'integrasi e malattie cardiovascolari


Associazione tra inibitori dell'integrasi e malattie cardiovascolari nelle persone che vivono con l'HIV: uno studio prospettico multicentrico del consorzio di coorti RESPOND.   Lancet HIV

Le malattie cardiovascolari sono fonte di preoccupazione nella presa in carico delle persone che vivono con l'HIV (PVHIV). In effetti da quando vi è un accesso universale al trattamento antiretrovirale, l'aspettativa di vita ha continuato a migliorare, ciò che ha reso le persone più suscettibili ai problemi cardiaci e metabolici. Vari farmaci antiretrovirali, tra cui gli inibitori dell’integrasi e l'abacavir, sono stati messi in relazione con un aumento del rischio cardiovascolare. Ci sono ancora pochi studi che hanno valutato tale rischio in relazione alla terapia con la classe degli inibitori dell'integrasi (InSTI), che costituiscono la componente della maggioranza delle combinazioni antiretrovirali odierne.

Neesgaard e colleghi hanno valutato l'associazione tra il trattamento antiretrovirale che include InSTI e l'insorgenza di eventi cardiovascolari nella coorte RESPOND, la più grande coorte HIV in Europa, che comprende anche lo Studio Svizzero della coorte HIV (SHCS).

Sono stati inclusi in questa analisi quasi 30.000 PVHIV con un'età media di 44 anni, un quarto dei quali erano donne; 48% ha ricevuto o sta ricevendo un InSTI. Durante un periodo di osservazione medio di 6 anni, 748 (3%) dei partecipanti ha sviluppato un evento cardiovascolare, tra cui infarto miocardico, eventi cerebro-vascolari o procedure invasive su vasi sanguigni. Il rischio di malattie cardiovascolari risultava all’incirca due volte più elevato durante i primi sei mesi di trattamento con InSTI rispetto agli altri trattamenti. Questa differenza nel rischio non è stata più osservata a partire da due anni di terapia con InSTI.

Si tratta del primo grande studio di coorte che ha mostrato un’associazione significativa tra l'uso degli inibitori dell'integrasi e il rischio di malattie cardiovascolari. Ciò nonostante lo studio non era randomizzato, per cui possono sussistere numerosi fattori confondenti per cui non è possibile concludere che esiste una relazione di causa-effetto. Questo risultato non è stato confermato in un recente studio dell'SHCS, con metodologia statistica più solida, ciò che permette di rassicurare le PVHIV in relazione all’utilizzo degli InSTI. Prima di poter trarre conclusioni definitive occorreranno nuovi studi metodologicamente ineccepibili.

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9 agosto Byonanebye et al., Ipertensione arteriosa e inibitori dell'integrasi nelle persone che vivono con l’HIV


Ipertensione arteriosa e inibitori dell'integrasi nelle persone che vivono con l’HIV.   HIV Medicine

L'ipertensione arteriosa è una delle principali cause di decesso prematuro in tutto il mondo e rappresenta un problema crescente nelle persone che vivono con l’HIV (PVHIV). Circa un terzo delle PVHIV nel mondo soffrono di ipertensione arteriosa.

Esistono già dati convincenti che associano i medicamenti contro l’HIV della classe degli inibitori dell'integrasi all'aumento di peso, ma i dati che associano questa classe di farmaci con l’ipertensione sono contraddittori.

In questo studio, le ricercatrici e i ricercatori hanno esaminato l'incidenza dell'ipertensione nelle PVHIV sotto trattamento con inibitori dell'integrasi e l'hanno confrontata con quella relativa agli inibitori non-nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI) e agli inibitori della proteasi.

L'analisi è stata condotta nell'ambito di RESPOND, un consorzio di 17 coorti osservazionali che seguono più di 30’000 PVHIV in Europa e Australia.

L'ipertensione è stata definita come pressione arteriosa sistolica ≥ 140 mmHg e/o pressione arteriosa diastolica ≥ 90 mmHg o l’inizio di un trattamento con farmaci antipertensivi.

Tra le 4’606 PVHIV incluse nella ricerca e che non avevano una pressione arteriosa elevata all’inizio dello studio, il 23% ha sviluppato un’ipertensione in un periodo medio di osservazione di 1,5 anni.

Globalmente, l'incidenza dell'ipertensione era 76% più alta nei partecipanti che ricevevano un inibitore dell'integrasi rispetto a coloro sotto terapia con NNRTI. Per contro non vi era alcuna differenza nel confronto con i partecipanti sotto terapia con inibitori della proteasi.

In sintesi, i risultati di questo studio mostrano che l'ipertensione è frequente nelle PVHIV. Inoltre lo studio ha mostrato un rischio accresciuto di ipertensione nelle PVHIV trattate con farmaci della classe degli inibitori dell'integrasi rispetto alle persone trattate con NNRTI. Sarà importante fare ulteriori analisi per determinare se il rischio accresciuto di ipertensione sotto inibitori dell'integrasi è in relazione all’aumento di peso.

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22 giugno Speich et al., Risposta anticorpale in persone immunocompromesse dopo la vaccinazione contro COVID-19


Risposta anticorpale in persone immunocompromesse dopo la vaccinazione contro COVID-19 con i vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna.    Clinical Infectious Diseases

In Svizzera, i due vaccini COVID-19 di Pfizer-BioNTech e Moderna sono stati autorizzati nel dicembre 2020 e nel gennaio 2021. Entrambi i vaccini sono stati testati in studi di autorizzazione che hanno coinvolto decine di migliaia di partecipanti. Sulla base di questi studi, i vaccini sono stati ritenuti sicuri ed efficaci per la protezione contro il COVID-19. Poiché la base di evidenza per entrambi i vaccini era molto debole nelle persone con difese immunitarie ridotte, nella primavera del 2021 è stato condotto lo studio "COVERALL".

Lo studio COVERALL è stato integrato in due studi di coorte nazionali di lunga data (Studio svizzero della coorte HIV e Studio svizzero della coorte dei trapianti). Sia i soggetti infetti da HIV che i riceventi di trapianti d'organo, già inclusi in questi studi di coorte, sono stati invitati a partecipare allo studio COVERALL. I partecipanti allo studio sono stati assegnati in modo casuale a ricevere il vaccino COVID-19 di Moderna o il vaccino COVID-19 di Pfizer-BioNTech e hanno ricevuto le prime due dosi del vaccino nell’ambito dello studio. Otto settimane dopo la somministrazione della seconda dose di vaccino, è stato esaminato il numero di persone che avevano raggiunto una risposta anticorpale adeguata. Inoltre, è stata esaminata la frequenza degli effetti collaterali.

Sono stati inclusi e valutati 412 partecipanti, di cui 341 con infezione HIV e 71 con trapianto d'organo. Di questi 412 partecipanti, 202 hanno ricevuto il vaccino COVID-19 di Moderna e 210 quello di Pfizer-BioNTech. I risultati mostrano che la maggior parte dei partecipanti inclusi ha avuto una risposta immunitaria adeguata, indipendentemente dal tipo vaccino ricevuto (186 su 202 partecipanti, 92,1% dopo il vaccino Moderna; 198 su 210 partecipanti, 94,3% dopo il vaccino Pfizer BioNTech). Utilizzando un valore soglia più alto con il test diagnostico di Roche, la proporzione era leggermente inferiore.

Tuttavia, i partecipanti con infezione da HIV hanno avuto una risposta anticorpale adeguata anche con questo il valore soglia più alto (339 su 341, 99,4%). Per contro, solo una percentuale relativamente piccola di riceventi di trapianti d'organo ha prodotto anticorpi sufficienti (17 su 71, 23,9%). I vaccini erano generalmente sicuri, effetti collaterali come febbre e sintomi influenzali erano relativamente frequenti dopo la seconda dose di vaccino. 16,2% dei partecipanti hanno avuto un impedimento transitorio nella possibilità di proseguire con le proprie attività quotidiane (vaccino Moderna: 21,8%; vaccino Pfizer-BioNtech: 10,7%).

Lo studio mostra che la risposta anticorpale ai vaccini Moderna e Pfizer-BioNTech è paragonabile nelle persone con difese immunitarie ridotte. I riceventi di trapianti d'organo spesso non hanno una risposta immunitaria sufficiente dopo due dosi di vaccino contro il COVID-19 e necessitano di ulteriori dosi di vaccino.

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25 maggio Riebensahm et al., Aumento del grasso del fegato nelle persone che vivono con HIV


Aumento del grasso del fegato nelle persone che vivono con HIV.   Open Forum Infectious Diseases

L'aspettativa di vita delle persone che vivono con HIV è nettamente aumentata in Svizzera nel corso degli ultimi anni. La conseguenza è che talune complicanze come l'obesità e il diabete stanno diventando più rilevanti. Una delle conseguenze di queste malattie è l'aumento del grasso a livello del fegato (steatosi). Questo studio ha esaminato i fattori che influenzano l’apparizione di una steatosi epatica nelle persone sotto trattamento anti HIV.

Lo studio è stato condotto su 416 persone presso l'Inselspital di Berna. A tutti i partecipanti è stata eseguita un’elastografia del fegato per mettere in evidenza un’eventuale steatosi. Questa procedura non invasiva, simile all’ecografia, permette di misurare la rigidità e il grasso a livello del fegato.

Lo studio ha mostrato che il 50% dei partecipanti presentava segni di aumento del grasso epatico. Questa percentuale era del 70% nelle persone in sovrappeso, mentre era del 31% nelle persone di peso normale. I fattori di rischio associati all'aumento del grasso del fegato erano l’età > 50 anni, il sovrappeso o l'obesità e l'origine europea. Le persone che ricevevano tenofovir alafenamide (TAF; una molecola utilizzata nel trattamento dell'HIV) al momento della misurazione avevano un rischio due volte maggiore di avere un aumento del grasso del fegato rispetto a coloro che non ricevevano tale medicamento. Un legame tra steatosi e utilizzo di inibitori dell'integrasi dell'HIV non ha potuto essere confermato.

Riassumendo, questo studio mostra che l'aumento del grasso epatico è un problema frequente nelle persone che vivono con HIV. Oltre ai fattori di rischio classici è stata anche rilevata un'associazione con l'utilizzo di TAF, un medicamento usato frequentemente nella terapia contro l'HIV. La percentuale elevata di persone che presentano un aumento del grasso epatico senza un’obesità, mostra chiaramente che sono necessari nuovi studi per meglio comprendere i meccanismi delle malattie metaboliche nelle persone che vivono con l’HIV.

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29 marzo Aebi-Popp et al., Passaggio dei farmaci antiretrovirali nel latte materno ed esposizione del lattante


Passaggio dei farmaci antiretrovirali nel latte materno ed esposizione del lattante.   Journal of Antimicrobial Chemotherapy

Dal 2018, le donne con infezione HIV e una viremia non misurabile nel sangue, possono allattare se lo desiderano. Studi clinici su larga scala hanno infatti mostrato un rischio molto basso di trasmissione dell'HIV attraverso il latte materno nelle donne trattate con viremia non misurabile. I noti benefici in relazione all’allattamento devono essere bilanciati con il rischio teorico dell'esposizione del lattante ai farmaci antiretrovirali presenti nel latte materno. A questo proposito ci sono pochi dati nella letteratura, soprattutto in relazione ai nuovi farmaci.

Questo studio aveva lo scopo di misurare le concentrazioni di farmaci antiretrovirali nel latte materno e comparare i valori con quelli nel sangue della madre per determinare in che proporzione i farmaci passano nel latte materno. Il secondo scopo era quello di stimare la dose giornaliera di farmaci antiretrovirali assunta dal lattante durante l'allattamento e di misurare le concentrazioni dei farmaci nel suo sangue.

Lo studio prospettico ha coinvolto 21 donne che hanno partorito e desideravano allattare al seno. Per poter allattare, le donne dovevano avere una viremia soppressa, una buona aderenza ai farmaci e accettare dei controlli ravvicinati.

Non sono state evidenziate trasmissioni dell’HIV al lattante in relazione all'allattamento al seno. I risultati indicano che la rilpivirina ha un buon passaggio nel latte materno. Il passaggio degli inibitori dell'integrasi è più variabile: basso per bictegravir e dolutegravir, da moderato-a elevato per il raltegravir. Malgrado bictegravir e dolutegravir erano presenti in quantità più deboli nel latte materno, le concentrazioni di entrambi i farmaci erano più elevate nel sangue del lattante. Questa osservazione si spiega con il fatto che i lattanti eliminano più lentamente i due farmaci poiché l’enzima responsabile della loro eliminazione è ancora immaturo nel lattante. Come tutti gli inibitori della proteasi HIV, anche il darunavir/ritonavir passa in quantità ridotta nel latte materno. Per contro, gli inibitori della trascrittasi inversa hanno tendenza a concentrarsi nel latte materno, salvo il tenofovir disoproxil fumarat (TDF) che viene ritrovato in una quantità molto bassa.

La dose giornaliera dei farmaci antiretrovirali ingerita dal bambino in corso di allattamento è debole ed è al di sotto di un indice di esposizione del 10% (ciò che rappresenta la soglia di sicurezza comunemente accettata per l'allattamento).

Le concentrazioni dei farmaci antiretrovirali nel sangue del neonato sono variabili con concentrazioni non misurabili per taluni farmaci (ad esempio, per tenofovir alafenamid fumarat (TAF) o per TDF) mentre per altri (ad esempio, per dolutegravir) si trovano delle concentrazioni sufficienti per inibire il virus. Questi risultati sottolineano l'importanza di una buona aderenza al trattamento da parte delle donne durante il periodo di allattamento per evitare lo sviluppo di resistenze presso il neonato in caso di trasmissione del virus.

In conclusione lo studio ha mostrato che le quantità di farmaci antiretrovirali assunti dal lattante sono deboli e non lo espongono a un rischio di tossicità. L'aderenza al trattamento della madre è fondamentale per evitare lo sviluppo di resistenze presso il lattante nel caso ipotetico di una trasmissione dell'HIV.

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15 febbraio Delabays et al., Valutazione del rischio cardiovascolare nelle persone che vivono con HIV paragonate alla popolazione generale


Valutazione del rischio cardiovascolare nelle persone che vivono con HIV paragonate alla popolazione generale.   European Journal of Preventive Cardiology

La prevenzione e il trattamento delle malattie cardiovascolari con arteriosclerosi (infarto del miocardio, ictus cerebrale, ...) rappresentano una sfida maggiore per le persone che vivono con l'HIV (PVHIV). Grazie ai trattamenti antiretrovirali molto efficaci le PVHIV sono ora confrontate con malattie legate all'età. L’accuratezza degli strumenti per il calcolo del rischio cardiovascolare (SCORE2, PCE, D:A:D), sviluppati in gran parte per la popolazione generale, rimane dibattuta nelle PVHIV e non è chiara la loro efficacia nel prevedere le manifestazioni di eventi dovuti all’aterosclerosi.

Questo studio aveva lo scopo di analizzare il valore predittivo degli strumenti citati nelle PVHIV che partecipano allo Studio svizzero della Coorte HIV (SHCS), nel confronto con la popolazione generale e più precisamente con una coorte di persone nominata CoLaus. I ricercatori hanno calcolato gli indici di rischio, con i tre strumenti per misurare il rischio di malattie cardiovascolari, nelle persone senza una storia di infarto o di ictus cerebrale nel periodo tra 2003 e 2009.

6’373 PVHIV della SHCS e 5’403 persone della coorte CoLaus sono state incluse in questo studio. Nei 10 anni di osservazione di queste persone, 8,4% dei PVHIV e 6,9% della popolazione generale, hanno manifestato un evento cardiovascolare. Aggiustando i risultati in relazione all’età, il numero di eventi cardiovascolari era quasi il doppio nelle PVHIV rispetto alla popolazione generale (12,9 eventi verso 7,5 per 1000 persone-anno).

I fattori di rischio come il consumo di tabacco, l'ipercolesterolemia e il diabete, erano pure più frequenti nelle PVHIV. In merito alla qualità degli strumenti applicati alle PVHIV, tutti e tre mostravano una buona accuratezza senza un ulteriore beneficio quando si includevano dei parametri specifici per le PVHIV come il tasso dei linfociti CD4.

In conclusione, lo studio ha mostrato che, in base al calcolo del rischio cardiovascolare, le PVHIV presentavano un rischio due volte più elevato rispetto alla popolazione generale di sviluppare un evento cardiovascolare. Ciò dimostra l’importanza di implementare le misure di prevenzione nella presa in carico delle PVHIV. Gli strumenti per il calcolo del rischio più utilizzati nella pratica quotidiana (SCORE2 e PCE) sembrano adatti per prevedere il rischio cardiovascolare nelle PVHIV.

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26 gennaio Pyngottu et al., Fattori predittivi del fallimento di terapie di prima linea con inibitori dell'integrasi


Fattori predittivi del fallimento di terapie di prima linea con inibitori dell'integrasi.   Clinical Infectious Diseases

Erstautor et al. Da qualche anno, gli inibitori dell'integrasi (dolutegravir, bictegravir, ecc.) sono parte integrante dei trattamenti antiretrovirali, in particolare come componenti dei trattamenti di prima linea (ossia primo trattamento prescritto a una persona che vive con HIV). Si tratta di farmaci con un’eccellente efficacia antivirale, buona tolleranza e, rispetto ad altri trattamenti, poche interazioni con altri medicamenti

Sono stati osservati rari casi di fallimento terapeutico durante un trattamento di prima linea con inibitore dell'integrasi. Questo studio ha voluto esaminarne le cause.

Le ricercatrici e i ricercatori hanno selezionato 1.419 persone affette da HIV che hanno cominciato un primo trattamento comprendente un inibitore dell'integrasi. Hanno analizzato come le persone hanno risposto al trattamento. Nel corso di 18.447 anni di osservazione (numero totale di anni durante i quali le persone sono state sottoposte a sorveglianza terapeutica), sono stati rilevati 121 fallimenti del trattamento.

I fattori di rischio associati al fallimento terapeutico erano la dimenticanza di almeno una dose di trattamento nel corso dell'ultimo mese, una carica virale superiore a 100.000 copie/ml nel plasma prima dell'inizio del trattamento e uno stadio di AIDS (CD4 < 200 cellule/uL). Per contro, un numero di cellule CD4 > 200 uL era un fattore protettivo contro il fallimento terapeutico.

Analizzando separatamente il dolutegravir in combinazione con altri due farmaci antiretrovirali, si sono ottenuti i medesimi risultati. Ciò è rilevante in quanto il dolutegravir è l’inibitore dell'integrasi maggiormente utilizzato.

Un'altra analisi di questo studio concerneva la rilevanza delle mutazioni “minori” potenzialmente associate a resistenza agli inibitori dell'integrasi e presenti nel patrimonio genetico dell'HIV. Ci si è posti la domanda se tali mutazioni possano giocare un ruolo nel fallimento dei trattamenti di prima linea. Mutazioni, potenzialmente associate a resistenza, erano presenti in 104 dei 646 pazienti in cui sono stati eseguiti test di resistenza prima dell’inizio del trattamento. Fortunatamente la presenza di queste resistenze minori non ha mostrato un impatto sull'efficacia della terapia.

Riassumendo, lo studio mostra che i fattori di rischio di un fallimento terapeutico con gli inibitori dell’integrasi sono gli stessi che erano stati associati al fallimento terapeutico con altre combinazioni di farmaci antiretrovirali. Inoltre, è stato dimostrato che le mutazioni minori nel gene dell'integrasi, messe in evidenza prima dell'inizio del trattamento, non compromettono l'efficacia della terapia.

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