2022

1 dicembre Atkinson et al., La terapia preventiva contro il Pneumocystis jirovecii non è necessaria negli adulti che vivono con HIV


La terapia preventiva contro il Pneumocystis jirovecii non è necessaria negli adulti che vivono con HIV sotto terapia antiretrovirale e che hanno un tasso di linfociti CD4+ > 100/μl.   Journal of the International AIDS Society

La polmonite causata dal fungo Pneumocystis jirovecii (PcP) è una delle infezioni opportunistiche più frequenti nei pazienti che vivono con un’infezione HIV non trattata e che presentano una grave immunodeficienza (linfociti CD4+ bassi). Questa polmonite deve essere trattata per tre settimane con dosi elevate di antibiotici. Al termine del trattamento questa infezione può ripresentarsi fino a quando il sistema immunitario rimane debole.

Per questo motivo, in base alle raccomandazioni attuali, una profilassi antibiotica deve essere assunta tre volte alla settimana dopo il termine della terapia della polmonite e fino a quando, grazie al trattamento antiretrovirale, i linfociti CD4+ hanno superato le 200 cellule/µL. Ciò può richiedere molti mesi se non addirittura anni.

In uno studio condotto nel contesto dello studio Svizzero della coorte HIV (SHCS) e in differenti altre coorti europee, è stato mostrato che questa profilassi antibiotica potrebbe essere interrotta dal momento in cui i CD4+ superano le 100 cellule/µL a condizione che la carica virale nel plasma (viremia) sia indetettabile sotto terapia antiretrovirale. A partire da quel momento, il rischio di recidiva della polmonite da Pneumocystis sembra estremamente basso. Questi dati suggeriscono che è possibile accorciare la durata della prevenzione con antibiotici in maniera sensibile, riducendo il numero di pastiglie che devono essere assunte dai pazienti.

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9 novembre Kusejko et al., Effetto duraturo sull'eliminazione dell'epatite C


Effetto duraturo sull'eliminazione dell'epatite C negli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (MSM) nella SHCS, due anni dopo l’inizio del programma di depistaggio sistematico tramite RNA del virus dell’epatite C.   Clinical Infectious Diseases

Nel 2016, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato la sua prima strategia globale per l'eliminazione dell'epatite C. Il piano d'azione dell'OMS comprende programmi definiti come “microeliminazione" per gruppi di persone particolarmente toccati dall'epidemia di epatite C. Uno di questi gruppi è costituito dagli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (men who have sex with men = MSM) e che hanno un’infezione da HIV.

Lo studio Svizzero della coorte HIV (SHCS) ha condotto tra il 2015 e il 2017, un programma di eliminazione dell'epatite C allo scopo di ridurre le nuove infezioni e la frequenza dell'epatite C negli MSM nel SHCS. Questo programma, denominato Swiss HCVree, ha condotto a una diminuzione sensibile della frequenza dell'epatite C (4,8% nel 2015 contro 1,2% nel 2017) e diminuzione delle nuove infezioni (0,53/100 persone-anno nel 2015 contro 0,31/100 persone-anno nel 2017). Ciò corrisponde a un calo del 77% delle nuove infezioni (incidenza) e del 91% della frequenza (prevalenza). L’attuale studio è stato condotto per dimostrare il successo a lungo termine del programma HCVree.

Per valutare l'efficacia nel tempo del programma di eliminazione dell’epatite C, le ricercatrici/i ricercatori hanno effettuato un nuovo depistaggio sistematico e retrospettivo dell'epatite C nei pazienti MSM della SHCS. Sono stati testati campioni di sangue congelati prelevati nel 2019, ottenuti da 4’641 MSM per depistare l’epatite C attiva. In totale 28 campioni di sangue su 4’641 (0,6%), presentavano un'infezione attiva da epatite C, di cui solo 11 erano nuove infezioni e 17 erano già conosciute in precedenza. Il programma nazionale di eliminazione dell'epatite C ha quindi avuto un effetto duraturo con ulteriore riduzione della prevalenza dell’epatite C dalla fine del programma HCVree, ma anche un’ulteriore riduzione del 39% dell'incidenza da 0,31/100 anni-persona a 0,19/100 anni-persona nel 2019.

Riassumendo, il programma di depistaggio sistematico dell'epatite C (Swiss HCVfree), condotto tra il 2015 e il 2017, è riuscito a contenere l'epidemia di epatite C negli MSM della SHCS, dimostrando un impatto duraturo a due anni dal termine del programma.

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14 settembre Engel et al., Lunghezza dei telomeri e rischio di infarto del miocardico nelle persone che vivono con HIV


Lunghezza dei telomeri e rischio di infarto del miocardico nelle persone che vivono con HIV.  Clinical Infectious Disease

Grazie agli efficaci trattamenti antiretrovirali, la speranza di vita nelle persone che vivono con HIV (PVHIV) si avvicina sempre di più a quella della popolazione generale. Malgrado ciò, il rischio di malattie legate all'invecchiamento, come ictus, diabete, osteoporosi e malattia coronarica, sembra più frequente.

I telomeri (una componente dei cromosomi) si raccorciano in modo naturale durante la vita e sono considerati un marcatore biologico del processo di invecchiamento. Nella popolazione generale, è stato dimostrato che una minor lunghezza dei telomeri è associata all’aumento del rischio di infarto miocardico. Le PVHIV potrebbero avere dei telomeri più corti rispetto alle persone non infette a causa di una predisposizione al loro accorciamento all'inizio dell'infezione da HIV, come conseguenza dell’importante stress subito dal sistema immunitario. Alcuni studi mostrano che un trattamento antiretrovirale efficace rallenta il processo di accorciamento dei telomeri.

Uno studio svizzero pubblicato di recente si è chinato sull'associazione tra telomeri corti e aumento del rischio di infarto miocardico nelle PVHIV, indipendentemente dai classici fattori di rischio cardiovascolare come il tabagismo, l’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia.

A tale scopo, la lunghezza dei telomeri è stata misurata in un totale di 1.078 persone che partecipano allo Studio Svizzero della coorte HIV (SHCS). 333 persone avevano nella loro storia clinica un infarto del miocardico e 745 erano senza antecedenti di infarto (gruppo di controllo).

I risultati di questo studio suggeriscono che le persone con telomeri più lunghi hanno un rischio di infarto miocardico due volte più basso rispetto alle persone con telomeri più corti, indipendentemente dagli altri fattori di rischio cardiovascolare. Sia il tabagismo che un tasso di colesterolo elevato aumentano a loro volta il rischio di infarto miocardico di due volte.

Riassumendo, questo studio mostra che esiste un'associazione indipendente tra la lunghezza dei telomeri e il rischio di infarto miocardico. La lunghezza dei telomeri potrebbe quindi essere utilizzata per stratificare il rischio di un evento cardiovascolare nelle persone che vivono con HIV, in modo da ottimizzare la scelta della terapia antiretrovirale e la presa in carico dei fattori di rischio cardiovascolari.

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20 luglio Deutschmann et al., Frequenza delle interazioni medicamentose presso le persone che vivono con HIV nello SHCS


Frequenza delle interazioni medicamentose presso le persone che vivono con HIV nello studio Svizzero della coorte HIV nell'era degli inibitori dell'integrasi virale.
    Clinical Infectious Diseases

In una precedente ricerca nello studio Svizzero della coorte HIV (SHCS), è stato dimostrato che la frequenza delle interazioni medicamentose con i trattamenti antiretrovirali è elevata. Lo studio è stato condotto nel 2008, quando gli inibitori della proteasi, l’efavirenz e la nevirapina, erano tra i trattamenti di prima linea. Questi farmaci antiretrovirali hanno un forte potenziale di interazioni medicamentose a causa delle proprietà inibitrici (riduzione dell'attività) o induttive (aumento dell'attività) degli enzimi che metabolizzano i farmaci. I trattamenti antiretrovirali sono evoluti in modo sostanziale nel corso deli ultimi anni con la commercializzazione degli inibitori dell'integrasi senza booster (senza rinforzo farmacologico), che oggi rappresentano i trattamenti di prima linea e che hanno il vantaggio di avere un rischio debole di interazioni medicamentose.

Lo scopo di questo studio è di valutare la frequenza delle interazioni medicamentose nel 2018, nell'era degli inibitori dell'integrasi, e di compararla con i risultati dello studio precedente realizzato nel 2008.

Questo studio osservazionale ha incluso 9’298 partecipanti, in gran parte uomini (72%) con un'età media di 51 anni. Gli inibitori dell’integrasi senza booster erano utilizzati nel 40% dei partecipanti, mentre il 60% ha ricevuto trattamenti antiretrovirali che potevano causare delle interazioni medicamentose. Considerando l’insieme dei partecipanti dello SHCS, il 29% aveva ≥ 1 interazioni potenzialmente significative dal punto di vista clinico. Prendendo in considerazione solo i partecipanti che ricevevano una co-medicazione (68% dell’insieme dei partecipanti dello SHCS), la frequenza delle interazioni medicamentose potenzialmente rilevanti era del 43% nel 2018, mentre nel 2008 era del 59%. Facendo un paragone con i risultati del 2008, un numero meno importante di partecipanti stava ricevendo un inibitore della proteasi con booster (-24%) o un trattamento comprendente l’efavirenz o la nevirapina (-13%). Per contro, l’utilizzo di altri farmaci concomitanti era più importante nel 2018, probabilmente in relazione all'invecchiamento della popolazione inclusa nello SHCS.

Questo studio mostra che la frequenza delle interazioni medicamentose è diminuita nel 2018 in rapporto al 2008 grazie all'utilizzo di inibitori dell'integrasi senza booster. Malgrado ciò la diminuzione è stata meno importante rispetto a quanto era stato ipotizzato. Questa osservazione si spiega con il fatto che una proporzione importante dei partecipanti nel 2018 stava ancora ricevendo dei trattamenti antiretrovirali a rischio di interazioni e inoltre si osservava un aumento del numero di farmaci prescritti congiuntamente alla terapia antiretrovirale a causa dell’invecchiamento della popolazione.

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29 giugno Bansi-Matharu et al., Medicamenti antiretrovirali moderni e aumento ponderale


Medicamenti antiretrovirali moderni e aumento ponderale.   Lancet HIV

L'aumento ponderale con alcuni medicamenti anti-HIV è un tema molto discusso nella ricerca nel campo HIV. Diversi studi indicano l’esistenza di un legame tra l'assunzione di determinati medicamenti antiretrovirali, in particolare tenofovir alafenamide (TAF) e dolutegravir nell'aumento del peso. I risultati degli studi condotti finora sono però difficili da interpretare, perché includevano solo un numero limitato di pazienti e si svolgevano in un unico Paese. Inoltre, negli studi precedenti, TAF e dolutegravir erano spesso utilizzati contemporaneamente, ciò rendeva difficile esaminare in maniera conclusiva la dinamica del peso in funzione del trattamento. L’obiettivo dell’attuale studio è di esaminare l'effetto dei singoli farmaci anti-HIV, compresi TAF e dolutegravir, sull'indice di massa corporea (BMI, body mass index). A questo scopo sono stati esaminati i dati dell'International Cohort Consortium of Infectious Diseases (RESPOND).

RESPOND è una collaborazione che comprende i dati di 17 coorti in cui partecipano oltre 29’000 persone che vivono con HIV. Lo Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) fa parte di RESPOND. Le persone che vivono con HIV incluse in RESPOND a partire da gennaio 2012 e di età superiore ai 18 anni, potevano essere inclusi in questo studio. Al fine di determinare l'effetto dei medicamenti antiretrovirali sull’evoluzione del peso, il BMI è stato calcolato prima dell'inizio del trattamento per ogni medicamento antiretrovirale e ne è stata analizzata l’evoluzione. Le analisi statistiche hanno permesso di identificare differenti medicamenti antiretrovirali associati a un aumento del BMI superiore al 7% rispetto al BMI calcolato prima dell’inizio della terapia antiretrovirale.

Nello studio RESPOND sono stati analizzati i dati di 14.703 persone, di cui 7’863 (54%) presentavano un aumento del BMI >7%. Rispetto alla lamivudina, che non causa un aumento del peso, dolutegravir, raltegravir e TAF erano associati in modo significativo ad un aumento del BMI >7%. Altri fattori associati con l’aumento ponderale erano un BMI basso prima dell’inizio della terapia antiretrovirale e un’etnia di colore. Un valore inizial elevato dei linfociti CD4+ era associato a un rischio ridotto di aumento del BMI. Inoltre è stato rilevato che, rispetto alla lamivudina, sia dolutegravir che TAF erano associati ad un aumento del BMI >7% anche quando le due sostanze non erano combinate tra loro. Ciò nonostante, l’aumento del BMI era più importante quando il dolutegravir e il TAF erano assunti insieme.

Riassumendo, lo studio mostra una relazione tra assunzione di dolutegravir, TAF e raltegravir con l’aumento del BMI. Questa relazione potrebbe avere una rilevanza nella pratica quotidiana dato che il TAF è usato sempre più spesso al posto del tenofovir disoproxil fumarate (TDF) ed è assunto spesso insieme a dolutegravir. Lo studio RESPOND ha mostrato che TAF e dolutegravir sono associati in modo indipendente con un aumento del BMI e che l’aumento è più importante quando i due medicamenti sono assunti insieme. L’aumento ponderale può associarsi a una resistenza all’insulina, a un aumento del tasso del colesterolo e a un’ipertensione arteriosa, fattori che possono indurre malattie cardiovascolari. Gli studi futuri dovranno esaminare se l'aumento di peso associato ai medicamenti antiretrovirali comporti effettivamente un rischio aumentato di malattie cardiovascolari. Inoltre, dati supplementari sono necessari per verificare se TAF provochi effettivamente un aumento di peso o se il problema risieda in un calo ponderale indotto dal suo predecessore TDF. Il calo ponderale potrebbe risolversi al momento del passaggio a TAF e per tale motivo si osserverebbe un aumento relativo del peso corporeo.

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19 maggio Nguyen et al., Le donne transessuali nella SHCS: descrizione della trasmissione HIV in un gruppo specifico


Le donne transessuali nella SHCS: descrizione della trasmissione HIV in un gruppo specifico.   Clinical Infectious Disease

Il termine "trans" è frequentemente utilizzato per definire delle persone che non si identificano con il sesso attribuito loro alla nascita. Si tratta di persone che sono state sottoposte a operazioni di ri-orientamento sessuale, a terapie ormonali o che nella vita sociale si identificano con l’altro sesso. Oltre al termine "trans", il termine "cis" è usato quando le persone si identificano con il sesso definito alla nascita. Numerosi studi condotti nel mondo intero, ma non in Svizzera, hanno dimostrato una riduzione della qualità di vita e un aumento dei problemi psichici nelle persone transessuali. Le donne transessuali - ossia le donne che alla nascita erano state assegnate al sesso maschile – hanno un rischio aumentato di acquisire l’infezione HIV.

Questo studio ha tentato di identificare le caratteristiche delle donne transessuali nello Studio Svizzero della Coorte HIV (SHCS). In passato questa popolazione non era stata identificata sistematicamente nella coorte. È quindi stata necessaria una ricerca sistematica dell’assunzione di ormoni, di indicazioni relative ad esami ginecologici e di note specifiche nella cartella clinica dei pazienti.

In totale, 89 donne transessuali sono state identificate nella SHCS. Nel confronto con le donne “cis” e con gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (MSM), le donne transessuali erano più frequentemente di origine asiatica o latinoamericana. In merito al livello di formazione scolastica e professionale, le donne transessuali erano paragonabili alle donne “cis”, ma nel rilevamento delle co-infezioni con la sifilide, erano paragonabili agli MSM. Le donne transessuali facevano più frequentemente uso di sostanze illecite ed erano più frequentemente affette da depressione rispetto alle donne “cis” e agli MSM. Inoltre, le donne transessuali sono state ospedalizzate due volte più spesso per problemi di salute mentale rispetto alle donne “cis” e agli MSM.

La rete di trasmissione dell'HIV è stata caratterizzata con l’aiuto delle sequenze virali per permettere una miglior comprensione della trasmissione del virus. In questa rete, le donne transessuali erano più frequentemente nel gruppo di trasmissione degli MSM che in quello delle donne “cis”. Ciò suggerisce una sovrapposizione più importante con l'epidemia HIV negli MSM rispetto alle donne “cis”.

Riassumendo, questo studio mostra che le donne transessuali costituiscono un gruppo specifico nella SHCS. Alcune caratteristiche hanno delle similitudini con quelle delle donne “cis”, altre con quelle degli MSM. Le donne transessuali dovrebbero quindi essere studiate in modo a se stante negli studi scientifici e non essere raggruppate in modo sommario con le donne “cis” o con gli MSM. L'elevata proporzione di donne transessuali che soffrono di problemi psichici o che consumano sostanze illecite mostra che quest’ultime potrebbero beneficiare di un’offerta di prevenzione e di presa in carico sanitaria mirata.

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20 aprile Gilles et al., Interesse delle persone che vivono con HIV in Svizzera per partecipare a studi clinici per guarire dall’infezione HIV


Interesse delle persone che vivono con HIV in Svizzera per partecipare a studi clinici per guarire dall’infezione HIV.   JAIDS

I recenti progressi con le terapie cellulari e geniche contro il cancro suggeriscono che quest’ultime possono rappresentare una strategia per guarire dall’HIV. I rischi e le difficoltà associati a queste terapie richiedono una comprensione più profonda delle aspettative nelle persone che vivono con l'HIV in merito ai suddetti trattamenti.

L'obiettivo di questo studio è di determinare il sentimento dei pazienti con HIV riguardo ai trattamenti complessi e, più precisamente, su ciò che rappresenterebbe per loro la guarigione, sulla ricerca in generale e sulle terapie cellulari. Inoltre, le ricercatrici e i ricercatori hanno cercato di comprendere cosa potrebbe impedire o per contro facilitare, la loro partecipazione a questo tipo di studi clinici, soprattutto alle terapie cellulari per l'HIV.

Il secondo obiettivo è di migliorare la comprensione di quelli che sarebbero i bisogni dei pazienti in caso di partecipazione a studi clinici di questo genere.

Per rispondere alle domande, è stata organizzata un’intervista con 15 persone partecipanti allo studio svizzero della coorte HIV (6 donne, 9 uomini) che si recano regolarmente alla consultazione dell'unità HIV degli Ospedali universitari di Ginevra (HUG) o presso il Centro ospedaliero universitario vodese (CHUV).

Le interviste sono state fatte in due tempi:
1) un momento di discussione aperta in cui si evocava la possibilità di guarigione e la si informava sulla ricerca in generale;
2) una discussione sulle terapie cellulari dopo che i partecipanti avevano letto un’informazione dettagliata, simile a quella riportata in un consenso informato per la partecipazione a uno studio, che conteneva le differenti tappe di un ipotetico studio clinico con terapie cellulari per l’HIV.

I risultati di questo studio indicano che la maggioranza dei pazienti è cosciente che la guarigione non può essere garantita con questo tipo di trattamento, ma malgrado ciò, 6 di 15 partecipanti hanno dichiarato che potrebbero aderire alla ricerca per guarire dall’HIV. Durante l’intervista sono state espresse due preoccupazioni principali:
- l'impatto sulla loro vita professionale e la paura di essere stigmatizzati;
- il fatto che l’interruzione del trattamento antiretrovirale potrebbe compromettere l'equilibrio che hanno raggiunto nella loro vita grazie alle terapie antiretrovirali.

È emerso chiaramente che la decisione di partecipare a un tale studio clinico, dipenderebbe soprattutto dalla comprensione dello studio, disponibilità di informazioni sufficienti e dalla relazione che hanno con i medici curanti.

Ciò che faciliterebbe la partecipazione a studi clinici per la guarigione dall’HIV è un’informazione dettagliata sulle conseguenze dell'interruzione della terapia antiretrovirale e, in maniera più generale, sulle conseguenze di una tale interruzione sulla salute dei partecipanti.

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23 marzo Bachmann et al., Indicatori virologici e comportamentali della trasmissione dell’HIV negli MSM


Indicatori virologici e comportamentali della trasmissione dell’HIV negli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini.     Clinical Infectious Diseases

La trasmissione dell'HIV è molto eterogenea: la maggioranza delle persone che vivono con HIV non trasmettono il virus ad altre persone, grazie a una diagnostica precoce e a un trattamento antiretrovirale efficace. D'altra parte, alcune persone sono più facilmente all’origine di una nuova trasmissione dell'HIV.

La prevenzione efficace dell'HIV richiede di riconoscere i fattori di rischio della trasmissione attiva per poter applicare in maniera mirata misure di prevenzione efficaci quali la profilassi pre-esposizione all'HIV (PrEP) e la strategia "test and treat" – ossia fare un test e trattare immediatamente.

In questo studio, una metodologia basata sulla filogenetica del virus, è stata utilizzata per caratterizzare, a partire da sequenze genetiche virali anonimizzate, le catene di trasmissione dell'HIV nello Studio Svizzero della Coorte HIV (SHCS). È stato possibile descrivere l’evoluzione di queste catene di trasmissione su un periodo di 10 anni. L'obiettivo era distinguere le catene di trasmissione che si ingrandivano e quelle che rimanevano costanti.

Questo approccio ha permesso di mostrare che solo una piccola parte (meno del 5%) delle catene di trasmissione si sviluppava dopo una nuova infezione da HIV. Il tasso di crescita di queste catene di trasmissione era associato alla frequenza di cariche virali non soppresse dal trattamento, ai rapporti sessuali non protetti e alla presenza simultanea della sifilide. Alla fine del periodo di osservazione, circa la metà delle nuove infezioni sono sopraggiunte nelle catene di trasmissione in cui, in tutti gli individui era stata fatta una diagnosi di HIV, la carica virale era soppressa. Ciò indica che le infezioni sono state causate da persone in cui l’HIV non era ancora stato diagnosticato.

Questi risultati dimostrano il successo della strategia " treatment as prevention " (trattamento come prevenzione) a livello di popolazione e mostrano che le infezioni da HIV non diagnosticate sono diventate progressivamente sempre più importanti nella trasmissione dell'HIV nel corso degli ultimi anni. In questo studio, abbiamo potuto identificare parecchie catene di trasmissione che si sviluppavano malgrado non contenessero persone con diagnosi HIV e carica virale non soppressa. Queste catene di trasmissione potrebbero in futuro fornire delle informazioni importanti per migliorare le misure di prevenzione.

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23 febbraio Stader et al., Effetto dell'invecchiamento sulle concentrazioni dei medicamenti antiretrovirali


Effetto dell'invecchiamento sulle concentrazioni dei medicamenti antiretrovirali.    British Journal of Clinical Pharmacology

La speranza di vita delle persone che vivono con HIV è aumentata considerevolmente grazie ai trattamenti antiretrovirali. Di conseguenza, il numero di persone anziane che vivono con HIV continua a crescere. I cambiamenti biologici legati all'età possono modificare il modo in cui i farmaci antiretrovirali sono trasformati ed eliminati. Esistono poche informazioni su questo problema dato che le persone anziane in genere sono escluse dagli studi clinici.

I modelli farmacocinetici fisiologici (PBPK) permettono di descrivere matematicamente il modo in cui i medicamenti sono assorbiti dall’organismo, trasformati ed eliminati, tenendo conto dei parametri demografici della popolazione studiata. I modelli PBPK sono stati sviluppati per simulare delle concentrazioni di vari farmaci antiretrovirali nelle persone anziani. L’adeguatezza dei modelli PBPK è stata verificata comparando le concentrazioni di antiretrovirali previste dai modelli con quelle osservate nella popolazione di partecipanti anziani allo Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) nel contesto di uno studio clinico.

L’adeguatezza dei modelli PBPK ha potuto essere confermata poiché le concentrazioni misurate di antiretrovirali allo studio (atazanavir/ritonavir, darunavir/ritonavir, dolutegravir, raltegravir, etravirina, rilpivirina, emtricitabina e tenofovir) si situavano in modo consistente nell’intervallo delle concentrazioni previste. I modelli validati hanno permesso di dimostrare che le concentrazioni massime di antiretrovirali aumentano del 34% (valore massimo) nelle persone anziane in paragone agli adulti giovani (20-24 anni). L'esposizione degli antiretrovirali aumenta progressivamente con l'invecchiamento fino a un massimo di 70% rispetto ai giovani adulti. Questi cambiamenti nelle concentrazioni dei farmaci si spiegano con la diminuzione del flusso sanguigno nel fegato e nei reni e con la capacità ridotta di eliminare i farmaci per via renale con l'invecchiamento. Le simulazioni suggeriscono che l'invecchiamento modifica in modo abbastanza modesto le concentrazioni degli antiretrovirali. Di conseguenza un aggiustamento delle dosi dei farmaci non è di regola necessario nelle persone anziane in assenza di malattie che influenzano in modo più marcato l'eliminazione dei farmaci, ad esempio un’insufficienza renale, cardiaca o epatica severa. I modelli indicano parimenti che l'invecchiamento ha un impatto sulle concentrazioni degli antiretrovirali simile negli uomini e nelle donne e anche nelle differenti etnie.

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21 gennaio Castillo-Mancilla et al., Associazione tra un’aderenza incompleta al trattamento antiretrovirale, eventi cardiovascolari e mortalità


Associazione tra un’aderenza incompleta al trattamento antiretrovirale (ART), eventi cardiovascolari e mortalità nelle persone che vivono con HIV in cui la viremia è soppressa: uno Studio della coorte svizzera HIV (SHCS).    Open Forum Infectious Diseases

Grazie all’efficacia degli anti-retrovirali, le persone che vivono con HIV (PVHIV) hanno una speranza di vita molto simile a quella della popolazione generale. Per contro il rischio di fare un infarto miocardico è più elevato nelle PVHIV soprattutto nelle persone che non ricevono una terapia antiretrovirale (ART). Il legame tra HIV e infarto miocardico si spiega con un aumento dell’infiammazione, come pure aumento dei fattori procoagulanti nel sangue. Quando le PVHIV hanno una viremia HIV soppressa nel sangue, i fattori procoagulanti e l’infiammazione diminuiscono e quindi in parallelo si riduce il rischio di un infarto miocardico.

Vari studi condotti dal Dr José Castillo (università del Colorado, USA) hanno mostrato che le PVHIV, che non hanno un’aderenza perfetta alla ART, hanno dei marcatori d’infiammazione nel sangue più elevati delle persone che hanno un’aderenza perfetta alla terapia. Finora non c’erano analisi fatte in coorti che raccolgono informazioni sull’aderenza al trattamento anti-HIV, sulla viremia e sugli eventi cardiovascolari (infarto miocardico o ictus). In tale contesto è stata intrapresa una collaborazione tra il Dr J. Castillo e SHCS. L’obiettivo dello studio era rispondere alla seguente domanda: in caso di dimenticanza una volta o più al mese di assumere i farmaci contro l’HIV, le persone che comunque hanno una viremia soppressa hanno un rischio aumentato di infarto o di morte rispetto alle PVHIV che affermano di non mai dimenticare i medicamenti (e che hanno a parimenti una viremia soppressa)?

Tra il 2003 e il 2018, 6'971 PVHIV senza antecedenti di infarto miocardico, hanno iniziato un trattamento per HIV e hanno potuto essere incluse nello studio. Tra di loro 205 (3%) hanno sofferto di un evento cardiovascolare (infarto o ictus) e 186 sono decedute a causa di un evento non cardiaco. Le PVHIV che hanno dimenticato una dose o più al mese di antiretrovirali, non hanno avuto un rischio statisticamente aumentato di soffrire di un evento cardiovascolare (nel confronto con le PVHIV che hanno assunto la loro terapia con un’aderenza del 100%). Per contro il rischio di decesso per un motivo non cardiaco era chiaramente superiore nelle persone con minor aderenza alla ART. Era 1,4 volte superiore nelle PVHIV che riportavano di aver dimenticato una volta al mese i farmaci e 2,2 volte superiore nelle PVHIV che riportavano due mancate assunzioni al mese.

La conclusione di questo studio è che l’aderenza al trattamento anti-HIV ha un ruolo importante, non solo per mantenere una carica virale al di sotto della soglia di detezione, ma è anche importante per diminuire il rischio di morte. Questo studio non ha per contro potuto dimostrato un aumento del rischio di infarto miocardico in caso di un’aderenza meno ottimale alla terapia. Per studiare più a fondo la questione occorrerebbero degli studi più grandi, con un numero più elevato di eventi cardiovascolari e possibilmente una misura più precisa dell’aderenza terapeutica rispetto all’autovalutazione da parte delle PVHIV nelle quattro settimane che precedono la visita medica.

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